Live report di Francesco Liberatore
Una pausa di cinque anni, un tempo lunghissimo per il mondo della musica, ma è così che i Fleet Foxes hanno salvato se stessi e la propria integrità artistica. Nel 2012 la band di Seattle, dopo un lungo e grandioso tour a supporto del loro secondo lavoro Helplessness Blues, sembra incappare in uno stallo creativo che ha radici nelle inquietudini del cantante e compositore Robin Pecknold. Questioni personali e un senso di inadeguatezza rispetto ad una scena musicale ristagnante e sempre più satura di epigoni — e che impone in qualche modo ai Fleet Foxes di esserne la guida — lo portano ad allontanarsi temporaneamente dalla sua creatura. Poco più di un anno prima era stato il batterista Josh Tilmann a rivendicare spazio per trasformarsi nel tracotante cantastorie Father John Misty; nel 2014 è la volta di Robin che decide di lasciare Seattle e la sua carriera musicale per trasferirsi a New York e completare gli studi alla Columbia University.
È una scelta difficile eppure figlia di una necessità fin troppo evidente: ripristinare il proprio equilibrio al di fuori della musica e infine ritrovarsi, come uomo innanzitutto e poi come artista. Non a caso, il titolo scelto per il terzo album in studio della band riassume bene questo processo e prova a sondarne significati ed esperienze per trarre nuova linfa vitale e creativa. Crak-up, una rottura da leggersi in senso metaforico, un cedimento interiore come conseguenza di un periodo difficile e colmo di incertezze, abbandoni e nuovi inizi. Ma il titolo (tratto da un saggio di Francis Scott Fitzgerald scritto nel 1936 per Esquire e tradotto in Italia come L’età del Jazz e altri scritti) è tutt’altro che un’affermazione di rassegnazione: crak-up sta ad indicare la consapevolezza della propria fragilità e al tempo stesso la capacità di trovare il lato positivo nelle situazioni più complesse per superare le avversità.
Le premesse al ritorno dei Fleet Foxes erano più che in passato cariche di significati e componevano una trama avvincente, resa ancora più ricca dalle intenzioni della band che annunciava di voler esplorare con maggiore coraggio i confini delle proprie influenze musicali. A pochi giorni dall’annuncio di un nuovo tour che toccherà ancora una volta l’Europa nel corso del 2018, apriamo uno squarcio temporale e ripercorriamo le sensazioni della data milanese del 10 novembre 2017, quando le volpi sono arrivate al Fabrique di Milano per la seconda tappa italiana del tour dopo quella estiva di Ferrara.
A differenza di tante band emerse dalla scena indipendente americana negli ultimi dieci anni i Foxes hanno trovato in Italia un pubblico appassionato, fedele ed eterogeneo; lo capisci osservando la varietà dei volti che compone la platea: si va dai giovanissimi nuovi adepti del culto folk-rock al ragazzo maturo con la camicia di flanella cresciuto consumando l’omonimo primo disco, per arrivare al signore brizzolato che fiuta nell’aria l’eredità spirituale dei Fairport Convention. Ad uno sguardo d’insieme non è un evento sold out ma poco ci manca. Quando parte l’attacco corale della mini suite I Am All That I Need / Arroyo Seco / Thumbprint Scar sembra davvero che la musica provenga da un qualcosa che si rompe, come uno scrigno scaraventato a terra che finalmente libera tutta l’energia che custodiva dentro. Un atto catartico a pochi secondi dall’inizio del concerto, eppure puntuale e indispensabile per stabilire l’incipit da cui muove questo nuovo percorso della band. Il tempo di riemergere da questo primo intenso sussulto che si prosegue in scaletta seguendo la linea tracciata nel disco con Cassius e Naiads, Cascades, due limpidi esempi della maturità artistica raggiunta da Robin e compagni, capaci di unire le solide progressioni folk degli esordi con nuove suggestioni psichedeliche dove complessità e minimalismo dialogano creando un paesaggio sonoro di grande fascino.
Appare subito evidente come il polistrumentista Morgan Henderson abbia contribuito ad ampliare le possibilità espressive del gruppo nella costruzione delle ardite atmosfere che compongono Crak-up, sia grazie all’apporto della sua raffinata tecnica percussiva (con tamburelli e maracas) che con le armonie e i contrappunti di tromba, flauto traverso e contrabbasso. Lo incontriamo poco prima del concerto mischiato tra la folla intento ad ascoltare il giovane cantautore Nick Hakim mescolare con la destrezza di un veterano soul, R’n’’B e hip hop in un calderone acido decisamente accattivante. È gentile e rilassato e ci ringrazia per essere venuti con la modestia di chi è devoto solo alla propria passione e non al culto della personalità, al contrario di tanti colleghi egomaniaci.
Grown Ocean, Ragged Wood, Your Protector e The Cascades scatenano il primo prevedibile sing along del pubblico, ma l’apprezzamento arriva anche per i nuovi brani che dal vivo acquistano decisamente potenza e appeal. Robin mantiene il suo tipico registro vocale, tra delicatezze sussurrate e squarci impetuosi che lo mettono a dura prova ma senza cedimenti; anzi, la maturità sembra avergli conferito maggiore espressività, come dimostra nell’epico saliscendi emotivo di Fool’s Errand.
Sorridono tra di loro, si scambiano rapidi sguardi d’intesa e mai come oggi appaiono una band unita, al punto che il batterista Neal Morgan sembra tutt’altro che un subentrante, tanto è il suo trasporto ritmico ed emotivo durante l’esecuzione dei brani.
Tiger Mountain Peasant Song spezza in due il concerto e segna uno dei momenti più intensi: protagonista il solo Robin in un’interpretazione per voce e chitarra che ci ricorda perché sia considerato tra i migliori cantautori della sua generazione. Si ripeterà poco dopo con il bis di Oliver James, altra perla acustica che ammanta la sala concerti di un’atmosfera atavica di storie antiche e racconti leggendari.
Il finale è un rush che prende per mano il pubblico in un rito di condivisione simile a una grande danza intorno ad un falò nel bosco (Mykonos e White Winter Hymnal), per urlare via paure e catturare la bellezza del mondo dentro melodie che sembrano davvero senza tempo (Third of May / Ōdaigahara, Helplessness Blues). Quando vengono richiamati a gran voce sul palco per un’ultima volta tocca all’attesissima Blue Ridge Mountains chiudere la serata: è l’epilogo di un’esperienza suggestiva segnata da canzoni che sembrano toccare anima e corpo nel loro intrepido cammino verso il cuore di chi ascolta.
Ci bastano davvero pochi attimi per avere la certezza di essere stati al cospetto di una delle migliori (live) band del pianeta, di quelle che hanno il potere di farti sentire bene pensando alla scena musicale contemporanea. E di questi tempi non è poco.