Recensione di Gustavo Tagliaferri
Tentare un approccio consono con l’universo degli Spiritual Front non è cosa facile, o quantomeno e senza alcun dubbio non risulta esclusivamente esprimibile in parole povere, poichè nel corso di un simile atto si diviene più che consapevoli di aver scelto di esplorare una dimensione che, di base, è tutta italiana, per l’esattezza romana, eppure guadagna principale riscontro fuori dai propri confini, lasciando convivere ramificazioni artistiche che vivono su tela, su pellicola, su nastro, su carta e fonderle per poi sublimarle in un songwriting decadente, romantico, assassino; constatazioni tipiche di un sentimento cosmopolita, fiero della propria arte intesa come concetto in continuo divenire. Insomma, non vi è dubbio che il progetto in esame sia a tutti gli effetti una delle pagine di maggiore rilievo dello stivale che siano state scritte negli ultimi vent’anni, così come non è casuale il richiamo ad Andrzej Zulawski ed al suo “Amore Balordo”: “Amour Braque”, appunto, quel disco la cui uscita tanto era bramata da circa otto anni, dopo “Rotten Roma Casino” e le parentesi fatte di rimaneggiamenti di istantanee risalenti ai primordi neofolk (“Open Wounds”), esperimenti orchestrali (“Black Hearts In Black Suits”, condiviso assieme al tastierista e direttore d’orchestra Stefano Puri) e split intrisi di immaginario dark (“Twin Horses”, con Lydia Lunch & Cypress Grove), ma soprattutto un disco che costituisce un ulteriore importante passo avanti compiuto dal deus ex machina Simone Salvatori. Là dove l’immaginario passato non si abbandona del tutto, a regnare è sempre quel suicide pop che non è mai soggetto a ripetizioni, ma permette da parte di un simile monicker, più che un genere, il rafforzamento di ciò che è a tutti gli effetti uno stile di vita ove il principale depositario sceglie di vestire i panni di un chansonnier che ingloba nelle liriche risultanti nichilismo e passione e nel farlo presta attenzione a non sbagliare le proprie mosse ed al contempo a non risultare cervellotico: il risultato sono canzoni che mediano in un’ideale summa le tante fonti di ispirazione che popolano la psiche del nostro, dagli Smiths a Nick Cave fino alla Suzanne Vega più intima (chi ha detto In Liverpool?), ed è il caso di Tenderness Through Violence, un intenso valzer favorito dalla contrapposizione tra riff battenti di chitarra e struggenti archi, elementi che a loro volta si fanno quasi da parte quando ad irrompere sono, prima l’una e poi l’altra particolarmente marcate da sapori rock, la sommessa Devoted To You e la frenetica Battuage, e già un classico del proprio repertorio al pari di Jesus Died In Las Vegas e Song For The Old Man, canzoni che portano alla luce nuovi probabili inni, nella fattispecie il catatonico richiamo di Children Of The Black Light, marzialità e veemenza memori anche del lato metallico dell’industrial che si odono al risuonare delle pelli dell’inconfondibile Andrea Freda per un ulteriore ipnotico e suadente invito alle danze, con tanto di conseguente esplosiva ed apocalittica chiosa orchestrale, canzoni che contrappongono vari immaginari del globo terracqueo accomunati dall’ottica del popolare e del tradizionale, rappresentati da una parte dalla cartolina sovietica su cui è illustrata una Vladimir Central precedentemente ammirata in tutto il suo splendore nella sua pubblicazione in picture disc 12″, toccante tanto quanto quella Beauty And Decay situata al suo opposto, e dall’altra dagli spaccati di vita tipici di una certa Francia, che risucchia a sé la galoppata di Disaffection, ed evidenti sonorità mariachi il cui filo conduttore è rappresentato dalla ballata The Abyss Of Heaven, colma di reminescenze westerniane già respirate ai tempi di Song For The Old Man ma trasposte in un presente provato dalla cupezza, e dallo zenith che forse viene raggiunto nel refrain beffardo, paradossalmente allegro (!) e frutto di uno svolgimento meno suicide e più pop, facente capolino in The Man I’ve Become, senza per questo tralasciare l’asciutto tango di This Past Was Only Mine, un agglomerato di nacchere, scacciapensieri e mandolini alitanti lo spirito di Astor Piazzolla, canzoni che ipotizzano un matrimonio con espedienti disco 70’s se non 80’s, principalmente di memoria Pet Shop Boys, che improvvisamente ha luogo grazie all’irresistibile incedere di Pain Is Love, canzoni che, malgrado tutto, celano una possibile solarità che, in fin dei conti, non è mai morta del tutto, e si ascolti l’aria altrettanto danzereccia che si respira nel folk di An End Named Hope per intuirlo. Gli Spiritual Front, checchè se ne dica, sono questi, ed “Amour Braque” compensa pienamente la lunga attesa comprovando come ancora una volta i miracoli sonori non siano affatto delle chimere: la penna e la voce di Salvatori sono delle inequivocabili garanzie su cui contare nel periodo che si sta vivendo, anime portanti di un linguaggio che sa come far fronte alle pessime logiche del mercato di massa. Arte che vive, che senza fretta prende forma attraverso note che permettono a quelle stesse tele di risultare in perenne movimento, un pensiero intuibile anche solo dando uno sguardo alla copertina firmata da Saturno Buttò. Un disco imprescindibile.
Spiritual Front – Amor Braque
(2018, Prophecy Productions)
1. Intro/Love’s Vision
2. Tenderness Through Violence
3. Disaffection
4. The Abyss Of Heaven
5. Children Of The Black Light
6. Pain Is Love
7. Beauty And Decay
8. Devoted To You
9. This Past Was Only Mine
10. Battuage
11. An End Named Hope
12. The Man I’ve Become
13. Vladimir Central