Recensione di Gustavo Tagliaferri
Un film che non esiste, o che risulta più diretto al proprio immaginario di quanto quest’ultimo possa arrivare ad intuire. Un film senza parole, ove registi, sceneggiatori, produttori ed esecutori stavolta si prendono la briga di solcare lidi differenti da quelli precedentemente toccati da altre formazioni. Pur non avendo a che fare con sonorizzazioni alcune, sono impliciti i riferimenti a certo horror psicologico a giudicare dalle premesse, e ad una simile constatazione i fratelli Luca e Simone Cavina, Bruno Germano e Cristian Naldi, già in bilico tra passato e presente, tra Zeus! e Calibro 35, tra Settlefish e Ronin, tra Fulkanelli e Junkfood 4tet, sanno come rispondere, in quanto ideali costituenti del nucleo in analisi: “Fantasma” non è solo l’inizio del percorso degli ARTO, ma costituisce un azzeccato punto di partenza attraverso cui buttare giù possibili nuovi spunti per quanto riguarda la musica strumentale nell’Italia di oggi. Giustappunto, non è casuale la scelta di privare cotanta esperienza di qualsivoglia battuta, dal momento che l’unico accenno di narrazione, nel mantra cantato di On Suicide, è affidato ad IOSONOUNCANE, che recitando Bertolt Brecht svolge il ruolo di un Caronte apparentemente irriconoscibile, che nel traghettare i qui presenti porta a sé una cupezza fusa ad ispirazioni psych-folk ’60-’70, quella cupezza che nel giro di poco tempo è prossima a manifestarsi una volta calato il silenzio, istante che permette ad ognuno dei componenti di dare libero sfogo alla propria fantasia: le sette composizioni che vengono brillano di una luce comprendente quanti più espedienti adeguatamente amalgamati e riconducibili a stati fisici e mnemonici che trovano consona trasposizione: il crescendo di Trauma è catatonico ed allucinante, intento a mescolare, nella caducità tanto del tempo quanto della possibile pellicola di cui ci si sente improvvisamente coprotagonisti, le ritmiche math degli Shellac e le distorsioni di natura Melvins, via via sempre più furenti ed assassine e neanche remote all’ipotesi di riproporsi nel corso dell’opera, come lascia intuire Hauntology, che a sua volta fonde componenti nemmeno troppo distanti dall’idea di un teatro impressionista ed espressionista al contempo, rappresentata da un corto circuito di Farfise impazzite e dal tremolio chitarristico che, in mano a Germano od a Naldi, sembra quasi far riemergere ricordi d’infanzia colmi di elementi classicheggianti, magari idee di mandolini e mandoloncelli, per poi elettrificarli per bene ed immergerli in un incubo, lo stesso incubo che si manifesta al suono di espedienti sludge e drone che si avventano lungo la seconda metà di Larva, non prima che questa abbia portato alla luce visioni di orchestre virtuali colme di venature ambient che avviluppano e contemporaneamente distorcono la psiche, succubi di ripetuti rallentamenti, più che stop’n go, dei quali Simone Cavina è abile calcolatore; analogamente, non senza aver tenuto conto degli attimi di tregua che si riflettono in Ship Of Theseus, che accenna intuizioni melodiche quasi di ispirazione Genesis per poi soffocarli e sublimarli in un excursus burrascoso, come se il progressive di questi ultimi fosse stato fulminato da un’elettricità che accomuna space-rock e dilatazioni heavy, a cotante visioni si alternano intuizioni un po’ più pacate, sedativi sonori in cui si riconoscono in differenti circostanze un piano Rhodes che dapprima funge da contraltare là dove l’atmosfera diventa ulteriormente affascinante e soggetta ad esposizioni post-hardcore coese con galvanizzanti dilatazioni del basso di Luca Cavina, come nel caso di Mirror Box, e poi porta a compimento la propria visione luciferina nel corso di A Ghost Limbo, tra rullate di tamburi che sopitamente riecheggiano quasi omaggiando il Bolero raveliano, mellotron e nervosismi elettronici che occasionalmente danno un tocco ulteriormente introspettivo, e successivamente AibohphobiA, nemmeno dieci minuti a riassumere qualcosa che più che ambient a tutto tondo è musica da camera, un delirio che sembra provenire da dei Labradford, se non Rachel’s, stralunati, un delirio fatto di strumenti a corde, di chitarre ed archi, dove il tocco firmato Dimitri Sillato e Giuseppe Franchellucci è con molta probabilità ancor più toccante di quanto non sia stato in On Suicide. La musica tracciata all’interno di “Fantasma” non è solo una scommessa tentata e vinta, ma rappresenta un ulteriore punto da cui ripartire per quel che riguarda la costruzione di qualcosa di nuovo ed altamente godibile in Italia, e gli ARTO avranno ancora molto da dire, non solo considerando già l’alto gradimento che si prova con gli altri progetti facenti loro capo. Un lavoro da non perdere.
ARTO – Fantasma
(2018, Offset Records / Dischi Bervisti)
1. On Suicide
2. Trauma
3. Mirror Box
4. Larva
5. Hauntology
6. Ship Of Theseus
7. A Ghost Limbo
8. AibohphobiA