Rubrica di arte Arteria a cura di Davide Uria
Il percorso artistico di Veronica Liuzzi si snoda in molteplici campi espressivi tutti connessi tra loro: si occupa infatti di arte digitale, performance, video installazione e fotografia.
Originaria della provincia di Taranto, ha esposto in diverse mostre collettive in Italia e all’estero, alcune delle quali organizzate dalla Fondazione Pino Pascali di Polignano a Mare, dal Mars Centro per l’Arte Contemporanea di Mosca, dalla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino, dal Parlamento Europeo di Bruxelles, dall’Espacio Fundación Telefónica di Madrid e dalla redazione di Vogue Italia. Nel 2017 ha invece vinto il Premio Basilio Cascella, uno dei Premi d’Arte tra i più prestigiosi d’Italia.
La sua ricerca parte da una riflessione sul corpo umano in relazione al mondo circostante, agli oggetti che circondano la nostra quotidianità, alle influenze socio-culturali e al territorio in cui viviamo. Da qui una prima indagine sul rapporto tra uomo e tecnologia, in particolar modo sull’ossessione dei selfie, che può condurre alla dismorfofobia: un disturbo psichiatrico che prevede, da chi ne è affetto, la preoccupazione cronica e immotivata per un un presunto difetto fisico. Un problema che un tempo si sfogava trascorrendo ore davanti allo specchio, mentre ora con l’avvento dei social network, si riversa sul web, dove si entra attraverso la propria immagine. Nella serie intitolata “Anti-Ritratti (Anti-selfie)” realizzata tra il 2015 e il 2017 e composta da autoritratti fotografici, la Liuzzi rompe lo schema di questa tendenza ossessiva, fotografandosi col volto coperto da fiori oppure da guanti in lattice o ancora da una palla gigante. Le immagini portano lo spettatore a concentrare lo sguardo sugli oggetti, che diventano parte integrante del corpo, per diventare altro; figure antropomorfe in bilico tra il reale e l’irreale, in un’ambientazione claustrofobica, come a voler trasmettere la sensazione di chi vive con l’ansia perenne di mostrarsi diversamente da ciò che è in realtà. Le immagini si prestano inoltre ad ulteriori letture, se da un lato gli oggetti che coprono il viso possono essere interpretati come elementi di disturbo o addirittura come maschere da indossare a seconda di come vogliamo apparire, dall’altro diventano un invito a lavare via quella patina, quel filtro dietro il quale si cela un essere umano, con una propria distinta identità.
from “Anti-Ritratti (Anti-selfie)” project, autoritratti fotografici, 2017
Tra il 2016 e il 2017 realizza la serie “La città che non c’è” un progetto nel quale l’artista mette in luce le potenzialità di alcune aree abbandonate dell’interland tarantino. Opere incompiute o che, paradossalmente, sono state completate ma restano ancora inutilizzate. Nelle immagini fotografiche, nuovamente autoritratti, lo spazio e la figura umana entrano in relazione, interagiscono, diventano complementari anche nei colori, a esaltare le qualità di un luogo che potrebbe rinascere e riscattarsi dallo stato di abbandono. Gli scatti poetici e di forte impatto visivo, portano l’osservatore ad un discernimento e diventano documentaristici, rivelatori di una verità. Le immagini si collocano quindi in una dimensione metafisica, lì dove la metafisica si relaziona con la natura umana, poiché l’uomo è sempre alla ricerca di una risposta concreta, che possa spiegare il reale in senso assoluto.
from “La città che non c’è” project, 2016-’17
Così come negli autoritratti del 2017 “Deti Jone” e “Chid Ro” fotografie subacquee, nelle quali la Liuzzi si ritrae come un “Ophelia” del nostro secolo (famoso dipinto del XIX secolo di Sir John Everett Millais), con l’intento di mostrare l’evidente antinomia che si nasconde dietro l’apparente aspetto cristallino delle acque del litorale tarantino e di riserve naturali da anni inquinate e costrette al degrado dall’installazione di abusivi scarichi fognari. Anche in questo caso gli scatti rimandano a una visione metafisica della realtà. Non sono immagini complesse ma mostrano come il semplice sia in realtà articolato, grazie alla stratificazione dei livelli di lettura, basta infatti spostarsi di un livello, saper conservare ogni strato senza escludere o destrutturare nulla, per poter cogliere inediti e nuovi significati.
“Deti Jone”, fotografia subacquea – autoritratti, 2017
“Chid Ro”, fotografia subacquea – autoritratto, 2017
La stessa immagine viene riproposta nel lavoro intitolato “A” del 2016, una piccola video installazione contenuta in una scatola nera, dentro cui un corpo femminile nuota come in un acquario. “A” è la prima lettera dell’alfabeto, principio del nostro linguaggio. “A ” è anche il monogramma con il quale i Sumeri indicavano l’acqua, fondamento della nostra esistenza, elemento indispensabile senza il quale la vita degli esseri umani, degli animali e del mondo vegetale sarebbe impossibile. Dal punto di vista geografico l’acqua ci rimanda subito all’idea del mare, mentre la figura femminile ci riporta immediatamente al mito di Venere, sorta appunto dalla spuma marina. L’aver inscatolato un video in un contenitore di dimensioni auree, da sempre considerato un rapporto dotato di grande armonia, capace di conferire bellezza alle figure, rafforza a mio parere, il concetto sull’importanza dell’acqua come elemento fondamentale per la vita di ogni essere vivente. Una scatola difatti non sigilla, non nasconde qualcosa, ma la contiene,la preserva e ne esalta le qualità, proprio come un feto nel grembo materno.
“A”, video installazione, 2016
Nelle performance digitali la Liuzzi fonde la danza contemporanea con la tecnologia. Le opere, fruibili sotto forma di live performance e di video installazioni, sono costituite dall’interazione simultanea di luce, suono e gesto. Il corpo in movimento segue il moto delle proiezioni, nel tentativo simbolico di espandere lo spazio e le possibilità del corpo umano.
Le animazioni paiono al contempo prodotte dalle movenze del corpo, portando ancora una volta la nostra mente a riflettere sull’uomo e sull’ambiente che lo circonda, sull’influenza reciproca, su ciò che lo spazio può darci e viceversa. Ritorna anche l’elemento tecnologico, mentre le animazioni sono progettate tramite una tecnologia precisa, limitanti e vincolate quindi alla finzione e all’illusione, la loro interazione con il corpo umano in movimento, restituisce all’opera una dimensione reale più vicina alla natura, una sorta di reazione alla spasmodica tendenza tecnologica, che disumanizza e fa cadere il mondo nell’insensatezza.
“HOME – Luoghi e nonluoghi nell’era digitale”, performance digitale, 2017
“1959” è il titolo della video installazione progettata a quattro mani insieme all’artista Francesco Paolo Cosola. Un intreccio di mani, alternate al volto di una ragazza cinese, raccontano le difficoltà di essere e sentirsi “stranieri”. Le mani che si toccano o sfiorano, sono il veicolo per poterci avvicinare all’altro, accoglierlo e comprenderlo. A far da eco alla video installazione, le parole delle ragazza cinese, intervistata dagli stessi artisti, che narra di episodi di razzismo, un racconto che immediatamente diventa universale e si fa portavoce di ogni emarginato ed escluso. Il titolo “1959” si riferisce all’anno in cui per la prima volta venne fotografata l’altra faccia della luna, quasi interamente non visibile dalla Terra. Luna che nella religione cattolica, accompagna il cristiano al periodo pasquale, mostrandogli il lato comprensivo e compassionevole di cui è dotato. Il tutto avviene in una proiezione di forma circolare, che richiama le fattezze della luna e la simbologia intrinseca del cerchio, che nel periodo barocco, ad esempio, veniva utilizzato per rappresentare l’infinito. E in un infinito ipotetico e mentale si colloca l’opera, portando il fruitore a conservarne il messaggio, ad aprirsi a quelle immagini, a quei suoni e parole frammentate, che ora riecheggiano nell’animo.
“1959”, Video installazione site specific, 2018 (di Veronica Liuzzi e Francesco P. Cosola)
Ultimo, ma non ultimo per importanza, è il progetto di autoritratti fotografici “Home” realizzato tra il 2015 e il 2017, nei cui scatti l’artista si ritrae circondata dagli oggetti della sua quotidianità: una sedia, i panni stesi al sole o un albero. Oggetti che guardiamo o utilizziamo nella realtà di tutti i giorni. Ma ciò che noi chiamiamo semplicemente realtà è spesso avvolta da una nube misteriosa, inspiegabile. C’è qualcosa che supera la fisicità delle cose, una sensazione indecifrabile, magistralmente rappresentata in alcuni dipinti di De Chirico, Sironi e Magritte. Per citare, in parte, Georges Perec, in questi lavori c’è l’invito a prendere coscienza degli spazi che attraversiamo, delle forme che lo compongono. L’artista, in qualche modo, ci suggerisce come rendere nostre le varie porzioni di spazio, omettendo ciò che non ci interessa, rendendo questi spazi dei luoghi personali, ovvero, dei luoghi da abitare.
from “Home” project, autoritratti fotografici, 205-’17
Ci sono immagini contemporanee che impongono una sola lettura standardizzata, immagini complesse ma che in verità portano a semplici ragionamenti. L’operazione della Liuzzi è invece quella di trasmettere con pochi elementi, dei concetti più grandi e profondi, aprendo le opere a letture multi semantiche e soggettive. Un’operazione che non tende a svelare e imporre significati, ma li suggerisce ponendo degli interrogativi. E credo che in questa controtendenza, all’interno di una società caotica, ci sia molta speranza e umanità. Il restituire al mondo rappresentazioni semplificate delle cose, pare essere ormai l’unica soluzione al disordine che ci circonda, per riappropriarci utopicamente di noi stessi e dello spazio in cui viviamo.
Veronica Liuzzi
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