Intervista di Gianluca Clerici
Sono i RADIOLONDRA con questo nuovo disco dal titolo “Slurp” a rinfrescare la corrente della nuova melodia pop italiana. Beh certamente non solo loro ma diciamo che tra i Baustelle e i The Giornalisti ci troviamo davanti una buona via di mezzo, forse appena verso i secondi direte voi ed io sono d’accordo. Di certo c’è la pioggia e non la sfacciata estate nella musica di questo nuovo disco, non una pioggia battente ma certamente quella roba fresca che fa tanto sperare in un bel tramonto. Il romanticismo si fa digitale e la scena indipendente sfonda le porte del main stream con queste scritture che hanno un grandissimo piglio sul quotidiano di ognuno di noi. Ecco il segreto. Sono canzoni quotidiane. Le consuete domande di Just Kids Society:
Fare musica per lavoro o per se stessi. Tutti puntiamo il dito alle seconda ma poi tutti vorremmo che diventasse anche la prima. Secondo voi qual è il confine che divide le due facce di questa medaglia?
La musica è una esigenza di espressione, per noi. Essere artisti prescinde dal successo che hai fatto o che farai. Io credo tra l’altro che tutta la credibilità del proprio lavoro dipenda da questo. E la gente se ne accorge se sei vero o sei finto.
Crisi del disco e crisi culturale. A chi dareste la colpa? Al pubblico, al mercato, alle radio o ai magazine?
È un periodo storico molto interessante, almeno io la penso così. Perché le possibilità di fare cose ci sono, ma non le fai perché trascinato da movimenti culturali o di pensiero o di valori comuni e condivisi (che non ci sono sostanzialmente più). Puoi fare quello che vuoi, se ti vuoi buttare nella mischia vai, se non vuoi stai a casa. Non si tratta di dare colpe agli altri, se leggi certi scritti, la crisi culturale era percepita anche nell’antica Grecia (dove è nata quella che noi oggi chiamiamo cultura). Semplicemente, oggi più di ieri siamo noi a dover scegliere chi siamo e da che parte stare.
Secondo voi l’informazione insegue il pubblico oppure è l’informazione che cerca in qualche modo di educare il suo pubblico?
Tutte e due le cose. L’informazione che passano i canali mainstream a me sembra scarsamente interessante. Spesso è utilizzata come arma di distrazione di massa. I telegiornali parlano dei gatti sugli alberi ma non parlano della guerra dietro casa.
La musica dei Radiolondra cerca di cavalcare l’onda del main stream indie-pop con quel piglio di riflessione e intimità in più che fa la differenza nel gusto e nella percezione. In qualche modo si arrende al mercato oppure cerca altrove un senso? E dove?
Ti ringrazio. È interessante quello spazio in cui tu percepisci una differenza, un elemento di distinzione con le altre proposte artistiche. E’ vero, noi giochiamo con le carte che sono sul tavolo in questo momento, ma lo facciamo con naturalezza credo, non c’è niente di forzato, è il nostro modo di fare musica. Altrimenti te ne saresti accorto temo già al primo ascolto del disco. Noi attraverso le canzoni ci interroghiamo sulle cose, su di noi, è vero. Qualcuno ha definito i nostri pezzi come “scariche di sincerità”, è una bella cosa.
In poche parole…di getto anzi…la prima cosa che vi viene in mente: la vera grande difficoltà di questo mestiere?
È tutto difficile, una delle cose più dure è trovare bei posti per suonare live. Ma ci stiamo lavorando.
E se aveste modo di risolvere questo problema, pensi che basti?
No, non basta. Ci vuole un casino di determinazione soprattutto, appena molli, perdi tutto quello che hai guadagnato.
Finito il concerto dei Radiolondra: secondo te il fonico, per salutare il pubblico, che musica di sottofondo dovrebbe mandare?
Può scegliere in base al suo umore tra “Big Sur” dei The Thrills, e “La cattiva strada” di F. De Andrè.