Live report di Stefano Serafini
Charles Bradley, classe 1948, è una leggenda vivente. La sua storia, al centro del recentissimo documentario di Poull Brien The soul of America, sembra una sceneggiatura di un film: da ragazzo povero e senzatetto a star del soul alla veneranda età di 60 anni.
Sabato 2 novembre è una data molto attesa dagli addetti ai lavori romani, ma anche dalle centinaia di appassionati e non che hanno potuto conoscere la vicenda o che soltanto ne hanno sentito parlare. La location – prescelta da Ausgang per l’evento – è l’Angelo Mai; arrivo puntuale alle 22:00 ma la fila all’ingresso è già proibitiva. Mi incolonno e sono tra i fortunati riusciti a entrare; poco dopo l’organizzazione chiuderà le porte per l’eccessivo afflusso. Sold out anche a Roma, come a Milano qualche giorno prima.
Consci di essere in qualche modo dei privilegiati, gli spettatori si preparano. L’aria all’interno sembra più respirabile del solito. Che il soul purifichi l’ambiente oltre alle anime? Mentre ho di questi pensieri salgono sul palco gli Extraordinaries, la band di Bradley. E attaccano. Smetto di pensare, tutti lo fanno, perché il suono che proviene dal palco ci trasporta mentalmente a Detroit. Siamo sul finire degli anni ’60 e la Motown, l’etichetta discografica che insieme alla Stax ha fatto la storia del funk e del soul, produce una musica che per i neri d’America è un riscatto sociale.
Strabuzzo gli occhi perché il suono che ascolto è incredibile. Come diceva qualcuno, per un grande suono ci vuole un grande cantante. Ecco allora che il simpatico e barbuto tastierista annuncia, “ladies and gentlemen”, Charles Bradley. The Screaming Eagle of Soul.
Bradley è un uomo che ha sofferto tanto, lo abbiamo detto, e tutta questa sofferenza la si legge subito sul suo volto. Si legge nei goffi passi di danza a imitazione di James Brown e soprattutto si percepisce nella sua voce. Voce che dal vivo è molto più grezza e rude. È in effetti quasi sempre un urlo, un urlo di rabbia e disperazione, un urlo catartico, un ringraziamento al Signore e alla musica per averlo salvato, per avergli permesso di vedere Roma e poter forse raggiungere un giorno – come dirà nel finale – Gerusalemme. Dove è nato suo padre, Gesù Cristo.
Love bug blues ha un riff che sposta gli oggetti, figurarsi le teste e le vite degli spettatori dell’Angelo Mai che sono completamente rapiti. You put the flame on me è uno shuffle, una locomotiva che ha come ruote un giro di basso stratosferico. La voce blues di Bradley dà la carica giusta per far decollare il brano e la gioia dei presenti. Poi ci sono gli altri brani, ballads struggenti e sentite in tutti i pori della pelle da Bradley come Crying in the chapel, con cui apre e dove il nostro sembra piangere davvero, la bellissima Victim of love con cui chiude e dove sembra soffrire per un vero amore perduto.
L’incalzante Strictly reserved for you, dove il cantato ha un ritmo incredibile e il suo grido “I got the love!” è quasi ipnotico. La psichedelica Confusion che ricorda gli Sly & The Family Stones. Hurricane che è puro groove “old school”. Il nostro, seppur vestito come un redivivo James Brown – cui effettivamente somiglia – è musicalmente molto più vicino all’immenso Otis Redding o ad Arthur Conley, sebbene la voce sia più graffiante e meno versatile, mentre gli arrangiamenti rimandano ai Commodores o ai Temptations.
È soul. È il soul americano che siamo abituati ad ascoltare sui vecchi 45 giri, su Spotify o su supporti vari, come un qualcosa che appartiene a un passato glorioso e che mai avremmo immaginato di vedere cantato e suonato dal vivo in versione originale. Credo che sia proprio per questo che la sensazione di tutti, alla fine del concerto, quando il dj set di Soulkitchen si appresta a seguire la scia ormai ben solcata, è stata di aver assistito ad una serata speciale difficilmente ripetibile e che ricorderemo a lungo.