Recensione di Graziano Giacò
Aeroplano impaperato. Impreparato trovomi nell’accordar corde “aeiou” (vocali), infimandomi nell’accostar il barbuto Gengis Khan all’Odesso poco mito e tanto scato(logico?). Come chiudere una chiave in un cassetto attraverso una piuma di sicurezza. Gettarsi dall’aereo di cartapasta approfittando della pioggia di foglie autunnali, sfogliando il comfort adatto nel quale spogliarsi dei ricordi durante la discesa (dieci)orizzontale a forma di neve. (N)aveva voglia di piedare in lungo e così percorse in largo la circo n’ferenza della luna, un pesce(a)palla grattugiato nell’oceano spaziale e speziato, ove le distanze marliche giocano con gli elastici del cervello per sconfinare nel retrobottega dei sogni marionettati dal confortevole oroscopo alfabetico di un orso polar(oid). La notteilgiorno sono due facce (assonnate) dello stesso lenzuolo (come la rigiri, è sempre troppo corto/metraggio).
Il novello Geppetto scappa dall’assenza ingombrante della creatura forgiata dal suo cuore empirico? O il capitano Barbarossa s’avvia con il suo bicchiere di cristallo in una ricerca sub-inconscia della metà capovolta della sua melavvelenata? Il maresiliato ingoia l’Ulisse (gh)irlandese in un saliscendi tratteggiato da una matita truccata di timidezza che s’avvita sulla punta della debolezza d’un arcobalena, prigioniera del suo Pinocchio, mentre pesci a cilindro estraggono dalla propria bolla di salvataggio il razzoniglio in fuga smaniante dall’Alice di (Sa)turno. Il nostro piccolo vecchio principe, in sella al suo (de)trattore molecolare s’avvia a bernoccolare, mutandosi in flipperiana pallina, i pianetoidi omogeneizzati che null’hanno a che profferire col nostro aviatore dei settemari. L’amore è uno spendersi lontano dal proprio corpoggetto, senza nulla offrirsi, abiurando i finali e le ultime solenni poltiglie letterarie che addizionate non danno mai la percezione d’un addio che profumi dell’oblio necessario alle montagne per suicidarsi a colpi di fiumignavi.
Sul tapiro rullante delle promesse mantenute da imperatori dell’ovvio, la scialuppa profetica si lascia cullare dal pensiero ondifero della fanciulla indiana, pasticciata in apnea sentimentale da Opium. Un tronco inossidabile il suo spirito fantasma che le solleva la serranda degli occhi e la trasla, come un sottomarino (in)debito d’ossigenio, (capo)verso l’allunaggio del proprio animale karmicomico. Preppismo è il terminesatto per definire questa mancanza in doppiopetto. E forse lo è in quanto vocabolo/giocabolo inesistente, ma strabordante all’interno della favola di cui è permeato questo capolavoro d’animazione, ove la voce è il giusto arpeggio che colma il riposo del silenzio.
NB: il linguaggio è volutamente sbilenco, discompleto, molesto, 400colpesco, marlico. Questo articolo va letto indossando un paio d’occhi presi in prestito da una famosa volpe.
PS: (Dopo averlo ascoltato/visto per oltre 4 ore, m’è apparso Jeff. Buckley? Sin-è!)
Left me nothing but her own way
to thank me for my time
couldn’t see through your eyes that day
to love is not to know
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