Intervista di Gianluca Clerici
Direi che dalla prima traccia intitola “Permafrost” par di essere di fronte ai titoli di testa di un colossal alla Spielberg. E in effetti, in un certo qual modo, Alessandro Zannier ovvero il celebre OTTODIX, sa di presentarci ogni volta un lavoro che ha dentro la visione e la forza di un grande film. Lui che convoglio ovunque si possa il suo potere visionario, dal suono alle installazioni, in Italia come nel resto del mondo. “Entanglement” fa il giro del mondo, virtualmente come il suono digitale di questa società, ma anche umanamente, cercando, ricercando, scoprendo ed osservando l’uomo, di continente in continente… concedendosi, come uniche soste, queste meravigliose 5 tracce strumentali che sono sospeso a fluttuare dentro un cielo fittizio, sui cui plana l’ascolto e il pubblico che avrà la fortuna di concedersi questo lungo trasporto di 19 scritture inedite. “Entanglement”, di nuovo prodotto con la guida sapiente di Flavio Ferri dei Delta V. è forse uno dei più corposi lavori di Ottodix. Studia ed osserva le connessioni… ed è interessante ritrovare le connessioni tra questi suoni e quelli di tutta la sua carriera. Ad ora, OTTODIX, ci porta in viaggio. Verso l’uomo e verso noi stessi.
Ritroviamo Ottodix. Questa volta in viaggio nel mondo piuttosto che dentro le sue particelle infinitesimali o lontano anni luce dalla superficie. Hai deciso di avere uno sguardo attraverso, piuttosto che distaccartene?
Nell’album precedente (“Micromega”) il viaggio era a partire dalle micro particelle per arrivare ai sistemi di universi, ma passando per tutti i livelli di grandezza della materia intermedi, tra i quali i microbi, l’uomo, la Terra, il sistema solare ecc. Quindi avevo già tentato con un brano di addentrarmi nelle problematiche filosofiche “planetarie”. Si può tranquillamente dire che “Entanglement” sia figlio di quel brano (“Planisfera”), che reputo uno dei più riusciti della mia discografia; una sorta di spin off, come si dice oggi.
Mi piaceva l’idea di mantenere il concetto di viaggio tematico, di percorso, come in “Micromega”. Quale modo migliore di farlo se non attraverso un viaggio geografico tra continenti, oceani e zone polari? Stavolta la geo storia è la grande protagonista, anche se ancora una volta la fisica è servita per fornire il titolo (il fenomeno dell’entanglement) e la metafora che spiegasse il senso ultimo di questo percorso, ovvero capire come il mondo attuale sia arrivato a questo livello di iper connessione, nel bene e nel male. È stata un’esperienza intensa, esaltante in cui ho respirato di nuovo quel sapore di avventura, alla caccia di luoghi e nomi remoti nelle mappe e nella storia, un viaggio alla capitan Nemo, molto istruttivo.
L’uomo che hai incontrato in questo viaggio, ti ha deluso… ti ha sorpreso… hai fatto nuove scoperte?
La storia umana è sempre sorprendente. È come in tutti i miei album un’indagine sulle società umane e sulle loro storture, alla caccia dei perché inconfutabili, dei motivi veri alla radice dei nostri problemi e del nostro agire. Con “Micromega” ho finalmente sviluppato quella che è sempre stata una mia ossessione, ovvero il cercare di vedere lo schema generale dietro le cose, la formula che regola apparenti storie diverse. Ho messo assieme un sacco di materiale su statistiche, mappe, grafici e resoconti storici, spostamenti migratori di piante, animali, uomini, connessioni naturali e artificiali, come i percorsi dei cavi internet, gli oleodotti, l’inquinamento, le rotte navali e aeree nella storia, e sono venute fuori riflessioni importanti. Una fra tutte è quella che l’uomo sta diventando a sua insaputa sempre più un unico organismo, una grande colonia come i coralli, in cui la comunicazione tra le parti è immediata e la causa effetto di un pregio o di un difetto è istantanea su tutto il collettivo. Mi sembra uno spunto molto utile e attuale di riflessione, soprattutto in tempi di pandemia. Era una album nell’aria, preparato a lungo e uscito proprio nell’avverarsi della profezia.
Domanda delle domande: quanto l’uomo che hai incontrato somiglia a quella scimmia dentro l’antenna parabolica?
Ti riferisci alla copertina dell’album precedente? Direi che continua ad assomigliarci molto, in termini di conoscenza della natura che lo circonda. La conoscenza è ancora primitiva e così il nostro rapporto culturale e filosofico con l’ambiente. La copertina di “Entanglement”, invece, è un’iper-piovra e rappresenta benissimo non l’uomo, ma il tipo di società umana, tentacolare e iperconnessa. E poi è un animale marino che ha dato origine a un sacco di miti e di mostri immaginari nel corso di secoli di navigazione. Un animale marino intelligentissimo e alieno.
Il futuro è sempre stata una tua cifra espressiva, nel suono come nella melodia. Che futuro vede Ottodix attorno a se?
Il futuro (e la logica) sembra imporre un cambio di marcia immediato alle società mondiali, anche se negli ultimi anni la paura di un impoverimento globale sta facendo regredire gli Stati a una sorta di protezionismo e sovranismo ottocenteschi, senza nessuna logica a lungo termine. Solo paura irrazionale di affrontare il futuro perché non lo si capisce o non lo si vuole leggere. Il futuro che ci aspetta è davvero complesso, per questo la gente e la politica si rifugiano nelle soluzioni semplicistiche del passato. Peccato che non siano più efficaci. Vogliamo standard e privilegi da iper capitalisti, ma contemporaneamente sognare di mantenere intatto il nostro piccolo mondo antico, isolato dalle brutture della povertà altrui. Il futuro che vedo è un cambiamento repentino, ma necessario, un salto nel buio, prima che la natura decida per noi e forse già lo sta facendo. Se si innescano certi meccanismi naturali irreversibili, non li si ferma più, poi.
E se nel futuro l’uomo tornasse alle radici?
La vedo dura, bisognerebbe che venisse resettato dal nostro cervello il concetto di benessere acquisito e di profitto. Credo sia più saggio auspicare in una nuova generazione di persone che sappiano bilanciare tecnologia pulita e ambiente e sostituire il vecchio concetto di politica (ideologica) a quello di filosofia. Uomo-tecnologia-natura-filosofia. I Kraftwerk guarda caso, lo dicevano già 20 anni fa, in “Expo 2000”.
Di nuovo Flavio Ferri… non hai mai pensato di replicare scelte invece di incontrare nuove evoluzioni?
Infatti “Entanglement” è la replica di una scelta vincente fatta con Flavio nell’album precedente. Al contrario, io di solito ho sempre prodotto da solo tutti i miei album fino a “Chimera”, senza confrontarmi con altri produttori. Con Flavio è stata una piccola grande rivoluzione per me, frutto di stima e di amicizia di anni. Ero molto diffidente, non trovavo musicisti o produttori non solo in grado di capire i miei tratti caratteristici, ma anche di essere in grado di metterci mano senza fare tabula rasa e partire da zero. Un produttore che lavora con un artista che porta solo una demo piano e voce ha vita facile, dato che può costruire il brano a suo piacimento da zero, con il suo metodo di lavoro, ma il rischio è che suoni quasi come un disco del produttore stesso. Lavorare con un artista che ti porta anche tantissimi input sulla produzione già fatti e focalizzati sul tavolo è molto, molto più difficile. In quel caso devi capire l’artista che hai davanti, a fondo, sapere cosa togliere e cosa tenere perché è la sua caratteristica. Flavio in questo è bravissimo, un vero fuoriclasse d’altri tempi, com me è stato sempre molto equo; quando c’era da impuntarsi lo faceva e cambiava di testa sua, altrimenti no. Abbiamo creato un album molto più ricco così, che se lo avessimo fatto solo a modo mio o solo a modo suo.
Ed infine: ho fatto caso come le tracce strumentali che collegano i diversi luoghi del viaggio hanno sempre sonorità sospese e poco aderenti al resto delle canzoni. Almeno per alcuni aspetti, sia chiaro. Perché? Ma soprattutto perché questa scelta artistica?
Poco aderenti perché sono volutamente a sé stanti. Queste tracce sono a mio avviso molto interessanti e utili per vari motivi, sia da un punto di vista sonoro che simbolico, quindi molto coerenti con l’album e inoltre sono il vero elemento di novità che un album deve sempre avere rispetto al precedente.
I brani cantati parlano delle zone abitate del mondo, spesso caotiche e sovrappopolate, con storie drammatiche, intense e piene di input, violenza, controsensi e inquinamento di ogni genere. Le tracce strumentali rappresentano le zone disabitate o non popolate del pianeta, i mari, gli oceani, le zone polari. Sono delle camere di decompressione per scaricare cervello e orecchie da canzoni molto intense di contenuti, sono intercapedini nel viaggio, lavorano sul contrasto, come quando fuggi col mal di testa da una festa troppo rumorosa e ti ritrovi nel silenzio, con le orecchie che ti fischiano. È un viaggio che prevede di passare attraverso tutte le sfumature dell’inferno umano per riscoprire il piacere della disconnessione e dei luoghi remoti ancora rimasti.
“Isole Remote” in questo senso credo sia una delle tracce più simboliche del disco, proprio perché rappresenta sia le atmosfere ambient-marine delle zone disabitate che quelle (poco) abitate delle isole sperdute, suggerendo di riscoprire, un domani, la lentezza.
È ispirata e dedicata all’isola abitata più remota e irraggiungibile del mondo, Tristan da Cunha, in pieno Atlantico meridionale.