A cura di Gabriella Rossi
Nessuno inganna il proprio fallimento, nessuno se ne va veramente da sta città. Roma? Che cazz’ ci vai a fa a stu Roma? Sul ’e strunz vann a Roma! Hai visto quante cose da raccontà ce stanno int’ a sta città. Guarda, guarda… Ma è mai possibile che ‘sta città non te fa veni in mente nient’ a raccuntà?
Antonio Capuano in È stata la mano di Dio
Le parole messe in bocca ad Antonio Capuano nel nuovo film di Paolo Sorrentino mi battono in testa come un martello mentre cammino per le vie di Roma. Il freddo è pungente, il nuovo anno è arrivato e da un hotel del centro si sentono le parole urlate di una canzone napoletana. Io aspetto l’autobus, una coppia mi passa accanto e si stringe cantando: Abbracciame ‘chiu forte. Io osservo. Nei miei quasi trent’anni è l’attività che mi riesce meglio. Sola, anche quando in compagnia, scruto gli occhi degli altri e ne immagino le vite. Vorrei essere una scrittrice.
Sono finita a Roma con l’ambizione di fare i libri. Il magico mondo dell’editoria mi ha formata come stagista e poi gettata via in un eterno loop di curriculum da inviare, risposte negative e aspettative deluse. Io però continuo a scrivere, a girare e a scattare fotografie. Mi piacciono le facce della gente. I colori. Talvolta il bianco e nero. Vorrei avere la tigna – come dicono a Roma – di mettere su carta le storie che mi albergano dentro e il coraggio di proporle a un editore; insomma passare dal fare i libri a scriverli.
Poi arriva gente come Paolo Sorrentino, ti racconta la piaga più profonda della sua anima mettendo in concerto colori, musica, e parole. Tutto in modo tanto perfetto che non puoi fare a meno di chiederti:
Ma io che cazz’ teng’ a raccuntà?
Se siete riusciti a superare la premessa non richiesta ma necessaria, veniamo a È stata la mano di Dio. Il film parte dal mare, indaga i corpi delle donne, li spoglia, ce li mostra per come sono: giovani e decadenti, grasse e ingenue, anziane e scaltre.
Del resto anche Napoli è femmina e dal golfo si risale lungo la collina del Vomero per conoscere la famiglia Schisa. Tutta la prima parte della pellicola è un romanzo familiare ed è una delicata morsa al cuore guardare ai genitori di Fabietto con la tenerezza di un sedicenne.
Ogni passaggio è costruito con lo sguardo teso alla coppia. C’è la madre, donna divertente e dedita gli scherzi, talvolta maligni, e il papà complice e amico del giovane con un segreto che lui scoprirà solo una volta diventato grande.
Per chi non lo sapesse, la storia è autobiografica. Sorrentino è orfano dall’età di sedici anni e già solo per il coraggio di essersi mostrato e per aver messo in scena gli ultimi istanti dei genitori merita un plauso umano prima che artistico. Senza se e senza ma, con buona pace anche dei detrattori di Servillo: chi se non lui avrebbe potuto prestare la faccia al padre perduto dal Paolo diventato regista e che nel film è interpretato da Filippo Scotti?
Io Filippo l’ho avuto come compagno di banco al corso di francese al Grenoble di Napoli, abbiamo passato molte mattine a fumare sigarette, parlando del futuro. “Voglio essere un attore” diceva con lo stesso sguardo regalato al Fabietto del film: pieno di incanto e della tigna di chi crede nel proprio sogno. Filippo Scotti ha avuto decisamente qualcosa da raccontare e in È stata la mano di Dio ha posto la prima pietra per una brillante carriera. Un ragazzo della Napoli di oggi capace di immergersi nella realtà di ieri.
La città che lo circonda è viva, turpe, colorata, ma piena di angoli bui. Un posto con angeli e demoni spesso sovrapposti, in cui i sogni costano troppo e dove quando è apparso Diego Armando Maradona ha sovvertito la regola non scritta che nulla a Napoli potesse cambiare.
Diego ha regalato al popolo napoletano e a quello argentino un’epica da tramandare tra generazioni e ha salvato milioni di ragazzi, tra cui anche Paolo Sorrentino che non raggiunse i genitori nella casa in montagna proprio per una trasferta dove giocava El Diez. “È stata la mano di Dio” a salvare Fabietto, glielo dice lo zio amante del calcio e che – battuta iconica del film – trova “tutti deludenti”.
Un altro punto impossibile da trascurare è la sceneggiatura. Ogni personaggio ha un carattere che si incastra con quello di Fabietto Schisa per regalare allo spettatore una storia personale-universale che tuttavia si comprende un pizzico in più solo se sulla carta di identità c’è scritto nato a Napoli.
Quindi siamo arrivati al punto, dopo un giro di parole ingenerose attorno a un film difficile da spiegare e tornano le lacrime napoletane in una scia di tormenti, anche personali, impossibili da scindere dalla visione della pellicola. Il dialogo con Capuano, il Vesuvio di fronte, un ritorno alle radici piantate sotto l’acqua e le parole che si conficcano in testa come chiodi.
Sul e strunz vanno a Roma. Io ci ripenso e mi chiedo perché i miei personaggi parlino solo napoletano e perché l’idea di tornare a casa mi avvilisca e soprattutto com’è che non mi manchi il mare. Quando te ne vai da Napoli lasciando indietro la felicità e i dispiaceri, quando te ne vai per provare a raccontare le tue storie e a costruire una vita diversa e ti porti sulle spalle le urla di mamma, le risate sotto i baffi con papà e la famiglia stretta dentro le maglie del DNA, solo quando fai questo e sei nato ai piedi del vulcano puoi capire il Non ti disunire messo in bocca a Capuano.
Ho ragionato per dieci giorni su quelle tre parole seguite dal tuffo del regista nel golfo. Il senso forse è che chi ha qualcosa da dire deve vivere un dolore, attraversarlo come si fa nei vicoli di Napoli, perché credetemi: essere napoletani è un dolce veleno che dalla nascita a noi ci svezza e ci ammalia. Tornare alle origini è la risposta, come lo è stato per Sorrentino che, in tutti i suoi film, ha seguito il filo dell’abbandono per arrivare a tuffarsi dentro.
Nun t’hann lassat sul, t’hanno abbandunat dice Capuano a Fabio, diventato ormai grande e la mia chiusura in questa lettera fra due città è un grazie a Paolo Sorrentino: per aver raccontato la condizione di noi esuli per necessità – che ci portiamo nelle cuffie e nel cuore Napul è di Pino Daniele – e per aver letto dentro quanti di noi abitano nel dolore di essere stati abbandonati.
Io, come altri, abbiamo capito la differenza e posso giurare che da quel vuoto ne faremo materia nuova per camminare nel mondo: non ci disuniremo mai, noi più di altri non ce lo possiamo permettere.