Rubrica di arte Arteria a cura di Davide Uria
“Le colline hanno gli occhi” ma anche le montagne, tanto per citare un cult horror degli anni ’70 e per descrivere con una massima il lavoro di Luciano Civettini. Artista pop trentino, che fa della pittura uno strumento per esprimere la sua identità, con un linguaggio fresco e delicato, ma al contempo pungente e malinconico. Come delle visioni o premonizioni i personaggi che abitano i suoi quadri sono fuori dal tempo, in attesa di un tempo che verrà. I suoi lavori riflettono l’atmosfera e le peculiarità tipiche della sua terra natia, alle quali aggiunge elementi e personaggi ironici e giocosi, che irrompono nella scena pittorica. Così come accadeva nei quadri surrealisti, nei dipinti di Civettini si insinuano, dietro quei brulicanti paesaggi montani, che sembrano rubati da un racconto favolistico, delle note buie e di sconforto. Una pittura quasi decadente, temi forti intrisi di un forte lirismo, immersi in un’ambientazione sognante che inganna: fa sorridere ed è piacevole di primo acchito ma che in realtà tacita sempre una verità cruda e spiacevole.
Se pensiamo infatti ai soggetti da lui rappresentati, oltre ai personaggi fantastici e irreali, ricorre spesso l’orso, che anima le montagne e i suoi boschi dipinti, un’animale rispetto al quale l’uomo ha sempre provato sentimenti contrastanti: se da un lato ci affascina e ci accomuna ad esempio sul piano dell’affetto materno-filiale che rivolge ai suoi piccoli, dall’altro ci angoscia e spaventa per via della sua energia guerriera. E’ questo il lato oscuro della montagna e dei suoi abitanti che ci osservano dai dipinti dell’artista, che plasma la realtà a suo piacimento, con una pennellata leggera, quasi impercettibile e con un gusto estetico che pesca le sue origini e ispirazione dal surrealismo pop americano e dall’arte lowbrow, pur restando ancorato al suo territorio e ai suoi ricordi.
Una pittura fortemente autobiografica, che non racconta il mondo, ma una piccola parte del mondo, del suo e per farlo utilizza degli alter-ego che pur presentandosi in una dimensione onirica e sognante restano legati ad una base reale, raccontandoci con uno spirito tutto europeo le gioie e i dolori, i ricordi legati alla sua infanzia della montagna, della foschia e dell’odore degli abeti dopo la pioggia. Come un libro illustrato nei suoi dipinti si insinuano anche parole, frasi, pensieri collaterali che ribaltano il senso della rappresentazione figurativa e insieme distolgono l’attenzione dalla scena, più per una scelta stilistica, che per una ragione propriamente poetica. Tanto per fare un esempio: “Ti scrivo dal bel mezzo del temporale. In fondo, il luogo migliore per osservare il sole…”. Questi piccoli racconti che trapelano e i suoi dipinti, spesso così nostalgici e comici, accennano a quella che è l’allegoria dell’artista: la vita come foresta colma di presenze, che possono essere un bambino o un fantasma o un orso. Vivere, attraversando questi boschi, in uno stato di perenne allucinazione, dove gli oggetti e i personaggi allusivi si moltiplicano continuamente.