Intervista di Clara Todaro
Incontro Leo Pari in un tardo pomeriggio di febbraio, in un caratteristico locale su via del Porto Fluviale. Mi siede di fronte sorseggiando la sua birra scura, nella sua mise finto-casual in pieno stile “vintage”, il marchio di fabbrica che perfino il nome del suo studio di registrazione recita: Gas Vintage, per l’appunto. Il noto cantautore romano, fervido di immaginazione e prolifico di iniziative interessanti, oltre che musicista e produttore è anche l’ideatore del Folk Fest in Tour che parte il 14 febbraio.
Dopo due edizioni svoltesi in pianta stabile a Roma, quest’anno per la prima volta il Folk Fest sarà itinerante in tutta Italia. Cosa cambia e qual è lo spirito? Allora nello spirito in realtà non cambia niente, anzi abbiamo cercato di portare al contrario proprio lo spirito del Folk Fest romano in giro per le varie città italiane, quindi è un vero format il Folk Fest. Si cerca di mettere insieme vari artisti andando a cercare delle realtà, musicalmente affini al genere, nelle varie città che di volta in volta ci ospitano. Quello che cambia quindi sono i club. È stata un po’ una scommessa per noi: spostarsi da questo porto sicuro che era Roma in un’altra realtà in cui dobbiamo cercare di far conoscere questa nostra filosofia musicale.
Per quanto riguarda gli artisti in programma, possiamo dire che il Folk Fest è anche un’occasione di visibilità per i meno noti, trainati da quelli più affermati… Ad esempio nella prima edizione c’era Riccardo Sinigallia, nella seconda c’erano Ilaria Graziano e Francesco Forni con i Velvet Brass di Roy Paci. Quest’anno quali sono i nomi degli emergenti e quali quelli dei “big”? Nelle altre città abbiamo scelto di dare più attenzione a quelle che sono le piccole realtà emergenti che a nostro parere suscitano un certo interesse. Per esempio, in Lombardia abbiamo chiamato Massaroni Pianoforti – che è una realtà cantautorale a mio avviso molto interessante in Italia in questo momento – e Lucio Corsi – che è il nuovo progetto della Picicca dischi. Poi ovviamente c’è lo zoccolo duro: il gruppo romano che, oltre a me, comprende Vincent Butter e Discoverland – con Roberto Angelini e Pier Cortese – e altre realtà come quella pugliese di UNA, alias Marzia Stano, che fa parte della lineup del Folk Fest.
Quindi diciamo che il carrozzone sarà sempre guidato da voi romani, cui poi si aggiungono gli artisti della regione ospitante… Sì, ci siamo sempre noi, di volta in volta assortiti con altre realtà musicali del posto. Si fa anche un contest online, ecco questa è un’altra cosa che abbiamo esportato dal format romano: dare la possibilità anche ad artisti completamente sconosciuti di tentare di venire a suonare nel nostro festival, mandandoci un link al loro brano. Poi noi (i cinque della direzione artistica – n.d.r.) ne selezioniamo quattro che reputiamo più interessanti e li mettiamo democraticamente ai voti sulla nostra pagina Facebook. Quindi è un modo per dare anche una chance a persone che si ritengono musicisti folk.
Ecco perché un festival proprio sul folk e non su un altro genere? Cosa si intende per “Folk”? Eh, cosa si intende per “Folk”… Noi non siamo assolutamente dei puristi del genere, anzi ci tengo a sottolinearlo questo, siamo delle persone che amano la musica. Per “Folk” si intende tante cose. Principalmente, almeno nella mia mente, quando abbiamo fondato il nome, l’intento era quello di creare musica fatta dalla gente per la gente, quindi “folk” per persone. Musica che sia comprensibile per tutti e che arrivi alle persone. Poi ci sono tanti tipi di Folk, ogni paese ha il suo… Il Folk indiano sarà diverso dal Country-Folk americano, come è diverso da quello italiano che di regione in regione ha le sue peculiarità. Noi non stiamo attenti a questo, a fare musica che possa essere compresa da tutti, quindi all’interno di questo festival ci interessano meno alcuni tipi di sperimentazioni o musica progressive, musica metal etc… Mentre tutto ciò che è blues e canzone d’autore, insomma musica che derivi dal folklore di un qualche paese è bene accetta.
Secondo te, il Folk in versione italiana a quello di quale nazione si avvicina di più? Cioè, ad esempio, io penso al folk di matrice americana… Storicamente i cantautori italiani hanno subìto di certo il fascino che esercita la musica country-folk americana e inglese, basti pensare a De Gregori, Guccini o allo stesso De André… All’interno del nostro festival però, ad esempio, c’è UNA che invece esprime un folk molto più legato alla sua terra pugliese, pur facendo comunque canzoni pop, è più legata alle sue radici. Vincent Butter invece è un duo che fa pezzi in spagnolo, come in inglese e, indifferentemente, anche in italiano. Ci sono svariate influenze e il bello del Folk Fest poi è , fondamentalmente, quello di inserire artisti diversi e molto particolari. Ad esempio per la data di Torino abbiamo inserito questo artista che si chiama Galapaghost – che credo sia svizzero – lui fa un Folk di quelli con ukulele, chitarra acustica e voce, però nello stesso tempo ci saranno Eugenio in via di Gioia – una band locale che sta andando molto bene in Piemonte – che fanno proprio un folklore tipico piemontese… Quindi è bello spaziare, è proprio questa la scommessa.
Tu sei ideatore e produttore di questo festival, però partecipi anche direttamente perché sarai presente con la tua band. Qual è la tua versione di Folk? Di sicuro più cantautorale, ma non posso nascondere l’influenza di alcuni artisti, senz’altro di matrice anglofona – senza andare nello specifico di quello dell’America, dell’Inghilterra o della Scozia – sono molto legato a quel tipo di canzone con chitarra, voce e armonica. Allo stesso tempo però sono molto legato anche alle nostre origini italiane dei vari De Gregori, Vasco, Lucio Battisti, Dalla… Quindi non posso definirmi un musicista folk, non sono un artista di quelli che fa un revival folk da fattoria con sdraio e salopette, piuttosto si cerca sempre di mescolare tanti suoni come hanno fatto i Wilco o lo stesso Beck… Realtà americane molto interessanti che vanno a prendere un po’ dalle radici della loro cultura – e non solo – ma mischiano con sonorità più rock, più alternative. In qualche modo se mi dovessi mettere su uno scaffale, mi andrei a mettere da quelle parti.
Ecco hai citato Beck e mi viene in mente la cosiddetta scena “Indie”: una categoria ufficiosa da un po’ di tempo che richiede ormai, soprattutto in Italia, un riconoscimento ufficiale all’interno del panorama musicale. Musica indipendente significa talvolta anche autoprodursi per ovviare alle logiche di mercato delle grandi case discografiche: tu stesso, ad esempio, come anche tanti altri artisti del Folk Fest, hai uno studio di registrazione tuo… Qual è, secondo te, il quadro che si sta delineando in Italia? La situazione secondo me è ottima! Abbiamo sotto gli occhi continue dimostrazioni che si possono fare dei numeri interessanti senza avere alcun supporto da parte delle varie major, anzi molto spesso le case discografiche diventano un peso, una palla al piede. Ci sono artisti che sono rimasti fermi per anni perché hanno firmato un contratto sbagliato. Io, ad esempio, a parte lo studio di registrazione, ho aperto anche una piccola etichetta discografica – che si chiama Gas Vintage Records – con la quale sto contemporaneamente producendo diversi artisti. Per il 2015 sono previste cinque uscite: One Man 100% Bluez di Davide Lipari, il nuovo disco di Discoverland, il disco d’esordio di Mimosa Campironi, quello di Biemsix – che è una realtà nuova di psichedelia West Coast mischiata a beat anni ‘60 – e ci sarà anche il mio nuovo disco… Quindi cinque uscite in un anno sono tante, richiedono tanto impegno, è vero, ma si possono fare. Tutto sta nel lavorare bene, con i contatti giusti, e avere la possibilità di esprimersi e portare in giro le proprie idee (in Italia, ma anche con qualche capatina in Europa). E il Folk Fest nasce anche come veicolo, nel momento in cui, avendo una propria etichetta, si vuole dare spazio a progetti propri. Poi è chiaro che non è un monopolio, c’è totale apertura verso realtà provenienti da altre etichette.
Tornando al Festival, dunque ci sarà anche una diretta radio in live streaming sul sito di The Roost con Valerio Mirabella… Sì, il Folk Fest funziona così: a volte ci sono due palchi, ma quando invece è uno solo, tra un cambio e l’altro c’è Valerio Mirabella – il Dottor Mirabella (ride – n.d.r.) – che scambia qualche battuta con gli artisti. Tutto questo avviene anche in diretta streaming sul sito www.theroost.it. Devo dire che è molto bello perché lui così apre una lente di ingrandimento, con due chiacchiere e qualche curiosità, introduce un piccolo approfondimento che permette di esprimere quello che a volte la sola musica non arriva a raccontare. Questo insomma è il ruolo della radio, che permette di seguirci anche a chi non può essere presente.
Dato il contest online per scegliere i gruppi emergenti, è molto probabile che l’anno prossimo i nomi siano altri? Certo, io stesso non suonerò sempre, anzi è proprio questo lo spirito del Folk Fest. Cioè creare un appuntamento annuale in ogni città per questa tipologia di musica che – ci terrei a specificare – è un pochino più lontana dalle mode del momento e un pochino più vicina a quello che è il feeling, il sentimento vero e proprio della musica. Una musica che non sia usa e getta, di quella che va fortissimo per una stagione… Quello lascia un po’ il tempo che trova. A noi piace invitare artisti che in qualche modo riescono a smuoverci qualcosa dentro.
Come dicevamo prima, una musica che parli alle persone? Sì, ed è bello perché inizialmente avevamo un po’ paura, ci chiedevamo: “non è che questa cosa interessa solo alla gente dai 30 in su?!” Invece ci stiamo rendendo conto che abbiamo un’utenza giovanissima ai nostri eventi e questo non fa altro che rincuorarci. Il Folk Fest insomma non è assolutamente qualcosa per nostalgici.
Dunque un calendario ancora in aggiornamento, con cinque date già rese pubbliche e altre tre in aggiunta per la Sicilia… Avete pensato a una data di chiusura a Roma? Vorremmo fare una data a Roma, ma non è detto che sia di chiusura. Il progetto rimane sempre aperto. Anche quest’estate faremo sicuramente degli appuntamenti. Diciamo che è una specie di “Fantastici 4”, non so se hai presente i supereroi che stanno lì tutti insieme e appena c’è la chiamata per un’emergenza partono tutti insieme per andare in soccorso… Ecco il Folk Fest mi piace immaginarlo un po’ così: quando c’è il momento giusto, si fa in uno spazio adatto. Sicuramente è un progetto ambizioso che richiede posti capienti, club grandi, ma la scommessa è proprio quella di portare artisti che altrimenti non potrebbero stare su quel palco ad avere quel tipo di utenza. Una volta che un artista si trova davanti a 300-400 persone deve dimostrare quel che vale, però almeno ne ha avuto la possibilità.
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