Intervista di Gianluca Clerici
Marco Cantini ci ha dimostrato come un disco possa avere solo l’ambizione di raccontare, di divulgare, di condividere un messaggio, poetico quanto razionale senza dover per forza attingere a soluzioni facili per apparire. Che poi spesso dietro la facciata dell’essere artista si cela sempre una banalissima ipocrisia dell’apparire che salviamo in calcio d’angolo con morali più o meno popolari. Invece la filosofia del cantautore toscano davvero prevede solo e soltanto sostanza e questo lo dimostra prima di tutto con la forma canzone che restituisce al suo pubblico. Sostanza di parola e di un suono pregiato rubato al momento di un’esecuzione live in studio, narrazione cantata senza fronzoli e senza ritornelli facili. Questa la radiografia scheletrica di un disco importante uscito per la RadiciMusic dal titolo “La febbre incendiaria”: in questi 14 inediti rivisita e ripercorre a suo modo e a sua lettura il celebre romanzo “La Storia” di Elsa Morante pubblicato nel 1974. Un concept – com’era il suo precedente lavoro che puntava il dito a quell’Italia di Andrea Pazienza, un paese di rivoluzioni di classe in anni (era il 1977) di fuoco e di sommosse popolari. Ma ora Cantini si concentra sulla letteratura e sforna un disco di pregiata canzone, di un linguaggio elegante e di una forma per niente scontata e comoda per il bieco consumo. Suona davvero molto bene questo disco grazie all’ancora celebrata produzione di Gianfilippo Boni e segnaliamo, tra le tante firme ospitate a collaborare, anche la direzione artistica di Francesco Moneti (Modena City Ramblers) e Claudio Giovagnoli (Funk Off). Ci accodiamo alla critica che definisce questo disco ricco di musica impegnata ed impegnativa. Nessuno sconto culturale ai consumatori seriali di ritornelli da radio e da fischiettare a memoria. In ultimo segnaliamo che questo disco è bellissimo a vedersi: alla raffinata fattura del CD e del suo packaging (cifra stilistica della RadiciMusic) si uniscono bellissimi disegni fatti a mano dal pittore Massimo Cantini, padre dell’artista. Niente altro da aggiungere all’ascolto di questo disco di impegnata canzone d’autore italiana.
Un disco assai “antico” nelle intenzioni e nei modi. Ancorato al passato direi anche. Una scelta di stile o un istinto di semplice creatività?
Se è vero che ogni scelta è un’ecatombe di possibili, come diceva Epicuro, direi che non è il frutto di nessuna ricerca di stile. Certamente è un album che porta spontaneamente in sé molto della mia formazione musicale accumulata in tanti anni, ma non lo definirei ancorato al passato. Anzi, considero queste canzoni saldamente legate al presente: nel loro evocare una pagina importante del nostro paese che ci appartiene, della Storia che per Cicerone era “magistra vitae”, e in generale di tutte quelle storie che – attraverso la capacità di fondare la memoria – aprono inevitabilmente al futuro.
Prima di ascoltare il disco guardiamolo: opera ricca di illustrazioni. Ce ne parli?
Tutta la veste grafica è stata possibile grazie alle opere di mio padre, il pittore Massimo Cantini. Dipinti che ho visto nascere, e che per ovvie ragioni di contenuti – quali la violenza sulle donne e le statuarie rappresentazioni di vittime innocenti – ho trovato particolarmente adatti nell’illustrare il disco. Non a caso, sono spesso quadri di velata denuncia che hanno significati ecumenici. E per quanto concerne i profili del cane e del gallo nel packaging, anch’essi magistralmente rappresentati da mio padre, sappiamo l’importanza degli animali – soprattutto dei cani Blitz e Bella – all’interno de “La Storia”. Il merito del prodotto finale è anche di Aldo Coppola Neri e Stefania Cocozza della RadiciMusic Records, che curano sempre particolarmente – con raffinata sensibilità – le confezioni dei loro dischi, valorizzandoli al meglio grazie a tipologie di carta di alta qualità, materica al tatto e molto gradevole alla vista.
E veniamo al suono: un disco live in tutti i sensi, a parte qualche sovraincisione. Come mai questa scelta?
È stata una scelta condivisa in primis con Gianfilippo Boni e Fabrizio Morganti, due musicisti rivelatisi preziosi anche in questo nuovo lavoro. La considero probabilmente la migliore risposta all’esperienza di “Siamo noi quelli che aspettavamo”, un disco che mi ha dato molte soddisfazioni ma che per varie ragioni ha avuto una gestazione di ben tre anni. Oltre a questo, poter contare su un considerevole potenziale di professionisti eccellenti, affiatati tra di loro e ricchi di esperienza, ha reso questo passo inevitabile e direi doveroso: una scelta a vantaggio della qualità che ci ha premiato, lasciandoci molto soddisfatti.
E tanto per restare in tema: finalmente un disco suonato per davvero. Niente elettronica invasiva o portante. Ci hai mai pensato invece di ricorrere ai computer?
Onestamente no. Probabilmente non sarebbe stata l’opzione migliore per le mie canzoni. E in linea di principio, fin dove possibile, mi piace privilegiare sempre l’espressività dell’uomo: il suono naturale del suo strumento e delle sue mani.
Elsa Morante: perché raccontare proprio quel romanzo li?
Perché è un romanzo dal valore archetipico. Sfugge a qualsiasi definizione e resta ancora oggi indiscutibilmente attuale. È ambientato durante la seconda guerra mondiale, ma questa non è che una pura convenzione temporale. Come a voler dire che ogni guerra è in fondo uguale alle altre, e quello “scandalo che dura da diecimila anni” a cui la scrittrice si riferiva non è altro che la storia dell’uomo, così come è fatta e come noi stessi abbiamo contribuito a farla: nessun cambiamento è avvenuto, e le vittime sono sempre le stesse.